A Superga in bicicletta

Sono circa le dieci quando ricevo il messaggino sul cellulare. “Sono sulla salita. Vieni in auto. Gianni”. Letto così, di primo acchito, sono sobbalzato. Lo ha fatto – ho pensato – è partito con la sua bici gialla, color canarino, “reduce dai tempi modenesi” e si è avviato verso il cammino pernicioso, tutto in salita con destinazione Superga.

Per mandarmi un sms del genere, significa che si sarà “piantato” in uno dei molteplici tornanti che portano alle soglie della Basilica – rimarcavo mentre guidando velocemente nel traffico cittadino raggiungevo finalmente il bivio di Corso Casale dove imboccare la strada che porta al Colle.

Ma, curva dopo curva, fermandomi ad ogni ciclista che sforzava sui pedali, non trovavo la sagoma giusta, quella dell’allenatore del Torino. Dove sarà? È tornato indietro, non ce l’ha fatta? Lo ammetto, ho imprecato: mai promettere un voto che non si è sicuri di ottemperare!

E invece, appena giunto in cima alla salita, mi sono sentito chiamare a gran voce. Era lui. Era Gianni De Biasi, sebbene fosse irriconoscibile. Caschetto giallo, occhiali da sole avvolgenti, completo aderente blu in sella alla sua bici fiammante, parlottava con alcuni ciclisti del più e del meno, del percorso appena effettuato, della salita ritenuta più ardua, commentando i duri allenamenti che i suoi interlocutori stavano eseguendo in vista di una prossima corsa dilettantistica nei pressi di Castagnole.

Senza farsi identificare, camuffato come uno dei tanti appassionati di uno sport meraviglioso, ha parlato, salutato, dato pacche sulle spalle ai suoi sconosciuti colleghi di fatica per poi congedarsi da loro per rifocillarsi alla fontanella situata sul fianco sinistro all’ombra della costruzione.

Poi, tornato al sole, lungo il muretto che costeggia Superga e, finalmente sceso dalla bici, si è lasciato andare: “Sono sfinito. E’ stata una fatica invereconda. Non avrei mai detto che fosse così dura. Sono poco più di 4 Km di ascesa ma quando sei sulla sella, sembrano molti di più. In certi punti la pendenza è davvero rilevante e sono andato a zig zag. Qualche anno fa andavo in bicicletta con continuità, ora sono fuori allenamento e si vede”.

Qualche attimo per rinfrescarsi, due parole ancora per riprendere nel frattempo un pò di fiato ed ecco che, bicicletta alla mano, si è incamminato verso la lapide degli Invincibili.

Sempre in solitario, senza far sapere che quel ciclista anonimo col caschetto sulla testa fosse in realtà l’allenatore del Toro, è rimasto qualche minuto in contemplazione, rileggendo nella mente per l’ennesima volta tutti nomi dei caduti. Pungolato involontariamente dal sottoscritto che gli ha fatto notare il tragico caso di omonimia (il capitano Pierluigi Meroni facente parte dell’equipaggio con Gigi Meroni la farfalla granata) è sbottato: “Basta con questo vittimismo. Non serve a niente continuare a piangersi addosso, rievocando corsi e ricorsi storici nefasti. E’ giusto ricordare gli Invincibili, Meroni e tanti altri ma con positività, sennò non si lasceranno mai alle spalle certe sensazioni di sofferenza e drammaticità. Speriamo, invece, che proprio gli Invincibili, dall’alto, ci diano una mano, magari compiaciuti da questo gesto, e ci aiutino a conquistare la salvezza”.

Poi, dopo l’ultima occhiata all’epitaffio ha deciso di tornare. “Ora vado, alle 15 inizia l’allenamento”. E scapicollandosi ai 70 km/h per la discesa fino a Torino l’ho visto dileguarsi nella confusione delle macchine e dei semafori prospicienti Piazza Vittorio, superando automobilisti ignari di chi li stesse affiancando, uomo qualunque sui pedali di una bicicletta, un giorno di Maggio nel centro di Torino.

Fonte: Federico Freni