Dalle prime convocazioni a porta a porta all’impresa in Portogallo. Un c.t. italiano e un motto: <<Ci credo>>
Non che ci avesse mai creduto. Però se gli nomini Januzaj sussulta come se avesse ricevuto un pizzicotto. “Mi sono procurato il numero di cellulare del padre e l’ho tempestato di messaggi in tre lingue: albanese, inglese, francese. Gliene avrò mandati cento, ai limiti dello stalking. Non mi ha mai risposto, nemmeno per dire “grazie, non ci interessa”. Capisco la scelta per il Belgio, ma un po’ di educazione, insomma…”. Gianni De Biasi è il solito ragazzone pieno di energia anche ora che sta filando verso la sessantina. Racconta la sua Albania sotto un sole agostano, in riva a un mare attraversato fino a qualche anno fa dai clandestini, e sul quale oggi gli scafisti trasportano soprattutto marijuana: la dittatura di Hoxha è solo un brutto ricordo, l’esigenza di fuggire è finita, cantieri aperti ce sono ovunque, da Fastweb in giù molti hanno spostato qui i loro call center, insomma il lavoro non manca. Ma quelli che se la sono svignata negli Anni 90… “Si sono diffusi in tutta Europa, e hanno fatto figli. Io sono andato a cercarli, armato di almanacchi perché ormai ho imparato a riconoscere i cognomi di origine albanese. Quasi un casa per casa, io e Tramezzani”.
IL RECLUTAMENTO — Paolone Tramezzani ha sempre lo stesso sorriso simpatico di quando giocava nell’Inter. Un sorriso da venditore, stando ai risultati ottenuti in coppia con DeBiasi, di cui è il vice: da Basha a Berisha al fratellino di Xhaka, da Kace a Shala e ad Abrashi, i ragazzi dell’ultima generazione hanno scelto la nazionalità calcistica albanese, a differenza dei loro fratelli maggiori Behrami, Shaqiri, Dzemaili e Xhaka senior, tutti arruolati sotto la bandiera svizzera. Adnan Januzaj, 19enne talento cristallino del Manchester United, è una perfetta sintesi della mescolanza che ha segnato questi anni anche tragici, specie nei Balcani: nato a Bruxelles da emigrati albanesi del Kosovo, avrebbe potuto scegliere la nazionale belga (come ha fatto), l’Inghilterra dal 2018 (per diritti di residenza), l’Albania, la Serbia (il Kosovo ne faceva parte), la Turchia perché i suoi nonni vengono da lì e ovviamente la nascente rappresentativa kosovara. Forse Adnan diventerà uno dei migliori giocatori del mondo — la classe c’è, non sempre basta — di certo è già ora un simbolo della nuova Europa. L’Albania vi ha esportato la sua unica ricchezza, manodopera a basso costo, ottenendo un piacevole effetto collaterale: “Dovunque andiamo, 500 tifosi residenti vengono allo stadio. E’ successo anche in Islanda, non riuscivo a crederci. Nell’amichevole di novembre a Parma contro gli azzurri me ne aspetto molti di più”.
IL VIAGGIO IN SERBIA — Non sarà DeBiasi a godersi Januzaj, ma da quando — la sera del 7 settembre, ad Aveiro — l’Albania ha vinto in Portogallo nessuno se ne preoccupa più. “Onestamente, il successo ha sorpreso anche me: a loro mancava Cristiano Ronaldo ed erano in evidente down emotivo dopo quel triste Mondiale, mentre noi abbiamo giocato la partita difensiva perfetta. Premesso questo, l’Albania non è più una cenerentola: fino a due partite dalla fine del girone eravamo in corsa per uno spareggio mondiale, la squadra ha molto migliorato la fase di non possesso, quanto a quella di possesso… Che gol Balaj, vero?”. Molto bello. Diceva di un possesso faticoso?
“Prendiamo gol su palle perse banalmente in zone pericolose”. L’ovvio corollario del sacco di Aveiro è che adesso l’intera Albania si aspetta altri tre punti stasera con la Danimarca e, martedì a Belgrado, la partita della vita contro l’odiata Serbia. “Mi hanno detto che da tre giorni sulle loro televisioni scorre una sovrimpressione dove si ricorda che bruciare le bandiere albanesi può portare a provvedimenti Uefa” dice DeBiasi, restando di sale quando gli raccontiamo che un anno fa abbiamo assistito a Serbia-Croazia al Marakanà, e che di falò con bandiere biancorosse ne avremo visti una decina. “Sono posti complicati” conclude, non sa quanto a ragione: se la contesa attorno a Januzaj vi pare esagerata, sappiate che qui, fra Albania e Macedonia, si disputano pure i natali di Madre Teresa di Calcutta. Del resto, un vecchio detto del luogo recita: se il padre della guerra è spesso tedesco, la madre è sempre balcanica.
IL GRAZIE DEL PREMIER — Passeggiando lungo i boulevard di Tirana la febbre dell’attesa si percepisce in un brusio collettivo che vorrebbe la nazionale di DeBiasi qualificata a un grande torneo per la prima volta nella sua storia. “Resto dell’idea che Serbia, Portogallo e Danimarca siano le favorite per i primi tre posti, ma è chiaro che se riuscissimo a battere i danesi uno spiraglio si aprirebbe. Almeno ci siamo scrollati di dosso il peggiore ranking Fifa del nostro girone: la vittoria in Portogallo ci ha fatto avanzare di ben 25 posizioni, dalla 70 alla 45, superando l’Armenia. Io viaggio da equilibrista sul filo che separa l’autostima dalla presunzione. Del resto sono un tecnico italiano, lo sa perché in giro per il mondo siamo così apprezzati? Siamo massaie che aprono il frigo e non si lamentano perché manca questo e manca quello, ma organizzano un buon piatto con ciò che trovano”. L’altro giorno il primo ministro Edi Rama si è seduto accanto a DeBiasi nella cerimonia di inaugurazione dello stadio di Elbasan – quello in cui si giocherà stasera – 40 chilometri a est di Tirana, verso le montagne del Regno delle aquile. “Mi ha ringraziato perché parlo sempre bene dell’Albania, anche quando sono lontano, facendo loro un’ottima pubblicità. Non mi costa fatica: ero riluttante a venire, due anni fa, mi sono convinto perché volevo provare a tutti i costi l’esperienza di una nazionale. Adesso mi ci trovo così bene che d’estate riunisco i miei amici cicloturisti e ce ne andiamo a pedalare sulla costa sud, sotto a Valona: luoghi meravigliosi del tutto sconosciuti, l’anno scorso sono venuti pure Marzio Bruseghin e Giovanni Storti, quello di Aldo, Giovanni e Giacomo. Che risate…”.
ARANCE ED EROI — Brillano gli occhi a Gianni DeBiasi, nella veranda del resort sul mare che ospita il ritiro albanese. “Le faccio assaggiare una spremuta di arance, sono dolcissime” e il deja-vu è immediato, il pensiero corre a quel 2007 al Levante di Valencia, altra terra di arance strepitose. Ed è strano come questo tecnico di curriculum ben delimitato in Italia (Torino, Modena e Udinese i suoi picchi) sappia diventare all’estero un piccolo eroe popolare. Il Levante dell’epoca era un club fallito che perdeva ogni settimana un giocatore: anziché andarsene DeBiasi scelse di rimanere (“nel tempo ho incassato circa un decimo di quanto mi spettava, ogni tanto arriva ancora un piccolo bonifico perché faccio parte del comitato dei creditori”), pagando spesso il pranzo di tasca sua ai giocatori con famiglia e accompagnando una squadra fatalmente debolissima alle soglie di una retrocessione più che dignitosa. In questa seconda vita straniera hanno già riempito Tirana di sue gigantografie con l’indice puntato a segnare un percorso di speranza, “Une Besoj” in caratteri cubitali, vuol dire “Io ci credo”. L’ultimo libertador viene da Conegliano.
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