Blindato nel cuore della gente
Possiamo gettarci alle spalle quest’annata di stenti, trattenendoci il risultato che conta (e che, da neopromossa, deve bastare), sperando di scordarci presto i modi in cui è giunto, e cercando d’imporre l’assimilazione delle molteplici lezioni che dovrebbe aver ferocemente impartito. Senza illusioni, perché i fatti per ora non sono molto incoraggianti.
Parlare di De Biasi è d’obbligo, il che non dev’essere letto come opposizione all’eventuale successore (tra i papabili ci sono nomi decisamente stuzzicanti). Limitiamoci a lui, a quell’uomo che ha saputo farsi adottare da un mondo spesso chiuso e diffidente come quello granata. L’ha fatto con i risultati, meglio sarebbe chiamarli miracoli. Un miracolo dopo l’altro, radioso il primo per evidenti motivi; rabbioso il secondo per incidenti motivi.
Cacciato prima del primo morso, richiamato nel digiuno fisico e morale di una squadra sbandata e rassegnata, comunque vincente. Richiamato nella disperazione, per la disperazione. A questo punto, messo in discussione appena scampato il pericolo: richiamato senza convinzione, evidentemente.
De Biasi come ultima spiaggia, accettato obtorto collo, sopportato per cause di forza maggiore. Eppure raramente abbiamo intuito stigmate granata in altri “stranieri”, come in questo veneto di Sarmede. Anche nei difetti, pure essi assai da Toro: quel beffarduccio volto di sfida legato al piacere un po’ masochistico ma irresistibile di solleticare il più forte; quell’incapacità di stare zitto quando convenienza vorrebbe; quell’euforizzarsi nelle vittorie e panicarsi nelle tribolazioni, però senza mollare mai. Anzi, tendersi come un arco, vibrare come la corda di un violino, macerarsi dentro e fuori, facendosi pure del male, per scovare la soluzione, la salvezza, il riscatto. Eccome comprendiamo quei cinque più cinque anni di vita persi in due stagioni.
Al Toro ha vissuto momenti tremendi, De Biasi, e non parliamo di calcio, solo di calcio: il professionista pressato dalla necessità quotidiana richiesta da un traguardo prestigioso e altissimo; l’uomo massacrato da problemi ben più alti, cattivi, bastardi. Ha saputo essere un leone di qua e di là. Comunque lo giri, è fatto in un modo solo: e anche questo è da Toro. Lecito che non basti, per carità. Come può essere considerata insufficiente la conquista della promozione e della salvezza, strappata da subentrato-ex-silurato: ognuno ha i suoi metri di giudizio e di ambizione. Esattamente come la riconoscenza non fa parte del panorama professionistico, bensì è di pura sfera sentimentale, emotiva, morale, umana. E’ buona cosa, non è obbligatoria però.
Nell’identica maniera la fiducia non si può imporre né il desiderio di cambiare è imbrigliabile, contenibile: più prima che poi, o l’una o l’altro tracima, sfonda l’argine e va al comando. Meglio essere onesti, con sé e con gli altri: in questo Cairo ha ragione, fa bene ad ascoltarsi. Se è davvero se stesso a parlare: vuole cambiare allenatore? Giusto che lo faccia, in fretta, senza tentennamenti fintamente pudichi. Ha l’onore e l’onere della decisione. Non è un dramma, e De Biasi sa che sono altri, i drammi. Le proposte non gli mancano ed è lautamente pagato. Importante è la lealtà, proprio come sostiene il presidente: il mondo Toro deve essere e dovrà restare leale con un uomo come De Biasi, che in granata ha fatto bene il suo dovere. E che continuerebbe a farlo, magari con qualche piccola pretesa: le stesse di un qualunque tifoso.
Fonte: Tuttosport